Hammamet, il sacrificio giustizialista

 

 

 

 

 

Ilaria Mulè - Mag On (www.pollinonline.com) - 14 maggio 2010 

 

“Hammamet” di Massimiliano Perrotta è il dramma della sconfitta di un titano della scena politica, rifugiato in terra tunisina negli ultimi anni della sua vita, Bettino Craxi. Fu davvero uno scacco? Gianni Pennacchi lo chiama esilio.
E’ scoppiato lo scandalo Tangentopoli. Nelle aule giudiziarie le toghe sono impegnate a imputare gravi episodi di corruzione e concussione agli esponenti tutti della classe dirigente. La falla del sistema è il finanziamento illecito dei partiti. A Roma imperversa un giubilo apocalittico popolare misto giacobino: il 30 aprile 1993 muore simbolicamente Craxi, ucciso dalle beffe rabbiose della piazza, sotto una pioggia di monetine. La gazzarra mediatica rincorre e ripete la retorica inquisitiva dei tribunali, strombazza in breve la fine della prima Repubblica. Il rumore è ovunque.
Il giovane autore catanese, quietati gli sciacalli, fa ammenda. Segna l’accesso a uno spazio quasi oracolare in penombra: un recinto sacro in cui a rivelarsi è la verità umana del simulacro dileggiato.

Nell’introduzione al testo edito da Sikeliana, Pennacchi sottolinea come sia premura del teatro rendere giustizia e onore ai vinti: “Questo avviene dai tempi di Eschilo”. Possiamo quindi assimilare il regista siciliano a un poeta epico che descrive un mito eroico, ne interpreta il dolore e muove istanze morali, senza moralismo. Il suo “Prometeo incatenato” lotta per la civiltà ma l’offerta del fuoco non viene premiata dal plauso finale, causa il risentimento di Zeus. Greco è l’impulso ad autodeterminarsi, a disegnare la vita secondo le proprie ambizioni, greca la tendenza universalizzante e greca la volontà di difendere la propria libertà interiore, come ci conferma Plutarco nel suo trattato sulla gioia: “Solo una piccola parte dell’uomo è esposta agli attacchi della tyche, ma della parte migliore siamo signori noi stessi. La tyche può toglierci denaro, fama, perfino la vita fisica, ma non è in suo potere renderci cattivi e vili, rapirci a noi stessi e privarci dei veri valori del nostro animo”.
Il segretario del PSI ha sofferto di manie complottistiche e dell’abbandono amarissimo da parte di alcuni dei suoi. All’incalzare dei giudici, non è stato affatto conciliante, ha ostentato la sublimità dell’eroe che non rinuncia alla sua superiorità sul fato. Conosciuta la sventura, si è difeso con il logos.
Nessuna beatificazione: il componimento apologetico restituisce dignità dopo l’oltraggio al primo socialista che è riuscito a ottenere la presidenza del Consiglio.
Se tragicità è distruzione, tragica è la rovina di uno per il bene di tutti, tragica è stata la distruzione morale della persona di Craxi non più e non solo soggetto politico.

Sul palco Roberto Pensa dà voce alla meditazione sommessa, accompagnata da un efficace esercizio di sincerità e onestà intellettuale. Il registro tonale è quello della pacatezza. La scenografia minima sostiene quanto basta l’interpretazione attoriale affidata tutta alla parola. Chiama all’ascolto attento del testo che ha una qualità formale estetica indipendente rispetto alla performance. Il canto alternato con il corifeo è privo della reciprocità di domanda e risposta. La forma dialogica è annullata. La tragicità dell’esultanza orgiastica dei carnefici sul capro espiatorio è contenuta nell’antefatto, premessa del testamento spirituale che fluisce affidato alla traccia permanente di un registratore portatile.

Il riferimento a “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett è necessario. Le affinità tematiche ci sono, come pure le divergenze. I personaggi del dublinese sperimentano una crocifissione senza redenzione. Estragone, Clov sono tormentati da un impaccio al piede che rende l’andatura claudicante, altre volte può capitare che sia una montagna di sabbia a intrappolare il corpo del malcapitato nell’immobilità, fatto sta che non c’è scampo all’inettitudine. L’intellettualismo sofisticato aggrava l’impedimento, è la scaturigine del sarcasmo irridente, della buffoneria nera, dell’autoparodia clownesca. La frammentazione della scrittura drammaturgica corrisponde alla disintegrazione dell’io, il collasso nevrotico trattiene il boato. Deserto, desolazione, dissociazione, disperazione, agonie oniriche e agonie reali: un comune serbatoio di noia esistenziale e afflizione appartiene a Kafka, Pirandello, Ezra Pound, Pinter, Beckett, apparentati dalla percezione dell’assurdo.
A differenza di Krapp che riascolta alcune pagine di diario e trova un altro da sé, quindi non si riconosce, Craxi si ritrova. Seduto alla poltrona, con la sua giacca sahariana, ragionevolmente rende conto del suo operato. Le riflessioni si dipanano con chiarezza olimpica, il che equivale a una riconquistata coerenza, una riconquistata sensatezza, una riconquistata compiutezza. Si verifica un’adesione dell’io al sé, un passo in avanti verso l’agognata unità dell’essere.
In “Dante e l’aragosta” di Beckett, Belacqua prende lezione di italiano e discute con l’insegnante della pietà e della dannazione: “Perché non la devozione unita alla pietà anche quaggiù? Perché non la compassione insieme alla religiosità? Un po’ di compassione in mezzo alla pena del sacrificio, un po’ di compassione per poter rallegrarsi a dispetto della condanna”.
Ezra Pound chiude il 116 Canto con quello che sembra un appello alla grazia divina: “Carità talvolta io l’ebbi, non riesco a farla fluire. Un po’ di luce come un barlume ci riconduca allo splendore”.

E’ precisamente questo sentimento che ha indotto Perrotta a scrivere “Hammamet”.
Come i figli contestano i padri, a diciotto anni anche lui ha contestato Craxi (considerato per il tratto perentorio, decisionista, risoluto e accentratore il padre-padrone del PSI). Ma ha superato la fase del risentimento adolescenziale, si è identificato nella figura del padre (in senso lato) e assumendone il punto di vista (sempre in senso lato) è diventato a sua volta padre: ha recuperato quel modello per essere lui stesso genitore del novum.