Ritratto dell'artista da giovane

 

 

 

 

 

Ilaria Mulè - Melanila (melanila.blogspot.com) - 12 giugno 2011

 

MASSIMILIANO PERROTTA, SICILIANISTA MODERNISTA

L’incanto immobile, ipnotico e disperante degli scenari terrosi senz’acqua. La sferza del sole e l’arsura della bocca mitigata dalle bevande agrumate. La complessità raffinata delle trame letterarie. L’attitudine al filosofare capzioso che risolve nell’aforisma un pensiero saturo, spesso cifrato quanto enigmatico. Il pudore del cuore e il lirismo nostalgico dei sentimenti, stipati gelosamente nella segretezza del viso. Lo sdegno per lo Stato assente, la vocazione alle istituzioni delusa dalla coazione alle logiche mafiose, corporative, clientelari. Massimiliano Perrotta riassume nella sua persona i tratti identitari e culturali del nostro Sud, della Sicilia.

Porta la sua firma “Hammamet” (che ha debuttato il 25 novembre 2008 al Teatro Tordinona di Roma), rilettura autocritica (“da sinistra”) degli anni in cui cadde la prima repubblica, centrale la figura di Bettino Craxi. L’autore tenta un giudizio obiettivo dei fatti storici ormai sprovvisti di urgenza e decantati nel tempo trascorso. Propone un esame di coscienza in pubblico. Sottolinea la partecipazione popolare alle inchieste di Mani Pulite: «Era come se la presunzione d’innocenza fosse temporaneamente sospesa, le procure istruivano le indagini, le condanne venivano decretate sui giornali, sugli autobus, nei bar». Mettendo da parte le teorie complottistiche, continua: «La figura su cui principalmente si riversò l’odio collettivo fu quella di Craxi: perché di quella classe politica era il più autorevole rappresentante, perché fu l’unico a contrapporre al nostro furore un tentativo di difesa delle proprie ragioni». Accanito lettore di biografie, affascinato dal carisma del leader milanese di origine siciliana, il giovane regista tenta un giudizio equanime: «Una delle infamie di quegli anni fu trasformare la parola socialista in un insulto».

Sul podio della coscienza Perrotta elegge in un nobile primato la sua gente. Non solo Luigi Pirandello, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Gesualdo Bufalino, Angelo Maria Ripellino, ma soprattutto i meno noti come Vincenzo Consolo, Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo, Giuseppe Bonaviri. «C’è Tomasi di Lampedusa e c’è Leonardo Sciascia, c’è il fantastico e c’è il reale…un bel secolo insomma quello del Novecento siciliano. Un po’ per contatto con la materia, leggendo, un po’ per affinità, mi sono ritrovato dentro questo magma. Non si tratta di una scuola unica, ci sono diversi filoni, maestri e discepoli».


Il distacco antisentimentale connota uno sguardo dalla doppia lente, che permette nella sua produzione artistica sia una visione narrativa ferma, che fantastica, quasi epica.


«Ho avuto il privilegio di collaborare con Sebastiano Addamo, uno scrittore vicino per certi aspetti a Sciascia. Sono entrambi accomunati dallo stile secco e da un certo pessimismo: più esistenziale nel primo caso, più storico nel secondo. Sciascia ha vissuto la fine del fascismo e la speranza nella democrazia, che doveva cambiare le condizioni di vita del Mezzogiorno oppresso. Ma ne fu deluso. È in assoluto uno dei miei modelli per lo sguardo spietato, lucido, analitico, essenziale. Era ossessionato dal rispetto delle regole: lo spirito della costituzione (che considerava tradita), il processo giusto, il garantismo, le battaglie radicali. La sinistra gli ultimi anni della sua vita l’ha messo un po’ all’angolo per articoli come “I professionisti dell’antimafia”, in cui faceva un discorso paradossale, ma sensato. Mi affascina però anche il filone visionario, affabulatorio di Bonaviri e D’Arrigo».

Affettivamente legato ai nonni, quando Perrotta considera la sua infanzia e recupera il fanciullino pascoliano, riveste la memoria di emozionalità naïf, patrimonio spirituale che lo conduce a un tenue petrarchismo romantico.


«Sono nato a Mineo, che è un paesino dell’entroterra miticamente legato al raduno sull’altopiano di Camuti. Immaginiamo una specie di festival di Sanremo dei poeti dialettali, che si riunivano una volta l’anno attorno a una pietra che pare avesse un potere taumaturgico (secondo la leggenda, se le donne incinte vi si sedevano sopra, sarebbe nato loro un figlio poeta). Nell’Ottocento il più illustre nativo di Mineo è Luigi Capuana, nel Novecento Giuseppe Bonaviri a cui nel 2007 ho dedicato il documentario “Bonaviri ritratto”».


Nel rischio del campanilismo, seppur estetizzante, proprio non ci casca. Il regista trentenne affonda le radici nel sottosuolo stratificato archeologicamente rilevante della sua isola, un tempo crogiuolo di popoli, babele di idiomi. Ma poi, ramingo nelle pagine di tutta Europa, esule e nomade cerca approdo nel modernismo novecentesco di T. S. Eliot, Ezra Pound, Franz Kafka, James Joyce.

Vive una vita di lavoro e di studio a Roma, con la bussola orientata su Schopenhauer che, lapidario, così si esprimeva: «A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese».


Ha scritto e diretto gli spettacoli "Gli specchi" (2006), "Hammamet" (2008), "Filosofi da bar" (2010); i corti teatrali "Matilde di Canossa" (2008), "Gocce" (2009), "Il mantello" (2011); i video “Expo”, “Bonaviri ritratto”, “Mineo”, “Sicilia di sabbia”.


Ha pubblicato "Cornelia Battistini o del fighettismo" (La Cantinella, 2006; traduzione francese: LC éditions, 2011), la versione teatrale del racconto "Fine di una giornata" di Sebastiano Addamo (La Cantinella, 2008), "Hammamet" (Sikeliana, 2010; anche in edicola con il Giornale di Sicilia).

 


“HAMMAMET”, IL SACRIFICIO GIUSTIZIALISTA

“Hammamet” di Massimiliano Perrotta è il dramma della sconfitta di un titano della scena politica, rifugiato in terra tunisina negli ultimi anni della sua vita, Bettino Craxi. Fu davvero uno scacco? Gianni Pennacchi lo chiama esilio.


E’ scoppiato lo scandalo Tangentopoli. Nelle aule giudiziarie le toghe sono impegnate a imputare gravi episodi di corruzione e concussione agli esponenti tutti della classe dirigente. La falla del sistema è il finanziamento illecito dei partiti. A Roma imperversa un giubilo apocalittico popolare misto giacobino: il 30 aprile 1993 muore simbolicamente Craxi, ucciso dalle beffe rabbiose della piazza, sotto una pioggia di monetine. La gazzarra mediatica rincorre e ripete la retorica inquisitiva dei tribunali, strombazza in breve la fine della prima Repubblica. Il rumore è ovunque.


Il giovane autore catanese, quietati gli sciacalli, fa ammenda. Segna l’accesso a uno spazio quasi oracolare in penombra: un recinto sacro in cui a rivelarsi è la verità umana del simulacro dileggiato.


Nell’introduzione al testo edito da Sikeliana, Pennacchi sottolinea come sia premura del teatro rendere giustizia e onore ai vinti: “Questo avviene dai tempi di Eschilo”.

 

Possiamo quindi assimilare il regista siciliano a un poeta epico che descrive un mito eroico, ne interpreta il dolore e muove istanze morali, senza moralismo. Il suo “Prometeo incatenato” lotta per la civiltà ma l’offerta del fuoco non viene premiata dal plauso finale, causa il risentimento di Zeus. Greco è l’impulso ad autodeterminarsi, a disegnare la vita secondo le proprie ambizioni, greca la tendenza universalizzante e greca la volontà di difendere la propria libertà interiore, come ci conferma Plutarco nel suo trattato sulla gioia: “Solo una piccola parte dell’uomo è esposta agli attacchi della tyche, ma della parte migliore siamo signori noi stessi. La tyche può toglierci denaro, fama, perfino la vita fisica, ma non è in suo potere renderci cattivi e vili, rapirci a noi stessi e privarci dei veri valori del nostro animo”.


Il segretario del PSI ha sofferto di manie complottistiche e dell’abbandono amarissimo da parte di alcuni dei suoi. All’incalzare dei giudici, non è stato affatto conciliante, ha ostentato la sublimità dell’eroe che non rinuncia alla sua superiorità sul fato. Conosciuta la sventura, si è difeso con il logos.


Nessuna beatificazione: il componimento apologetico che è argomento di questo incontro restituisce dignità dopo l’oltraggio al primo socialista che è riuscito a ottenere la presidenza del Consiglio.


Se tragicità è distruzione, tragica è la rovina di uno per il bene di tutti, tragica è stata la distruzione morale della persona di Craxi non più e non solo soggetto politico.
Sul palco Roberto Pensa dà voce alla meditazione sommessa, accompagnata da un efficace esercizio di sincerità e onestà intellettuale. Il registro tonale è quello della pacatezza. La scenografia minima sostiene quanto basta l’interpretazione attoriale affidata tutta alla parola. Chiama all’ascolto attento del testo che ha una qualità formale estetica indipendente rispetto alla performance. Il canto alternato con il corifeo è privo della reciprocità di domanda e risposta. La forma dialogica è annullata. La tragicità dell’esultanza orgiastica dei carnefici sul capro espiatorio è contenuta nell’antefatto, premessa del testamento spirituale che fluisce affidato alla traccia permanente di un registratore portatile.


Il riferimento a “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett è necessario. Le affinità tematiche ci sono, come pure le divergenze. I personaggi del dublinese sperimentano una crocifissione senza redenzione. Estragone, Clov sono tormentati da un impaccio al piede che rende l’andatura claudicante, altre volte può capitare che sia una montagna di sabbia a intrappolare il corpo del malcapitato nell’immobilità, fatto sta che non c’è scampo all’inettitudine. L’intellettualismo sofisticato aggrava l’impedimento, è la scaturigine del sarcasmo irridente, della buffoneria nera, dell’autoparodia clownesca. La frammentazione della scrittura drammaturgica corrisponde alla disintegrazione dell’io, il collasso nevrotico trattiene il boato. Deserto, desolazione, dissociazione, disperazione, agonie oniriche e agonie reali: un comune serbatoio di noia esistenziale e afflizione appartiene a Kafka, Pirandello, Ezra Pound, Pinter, Beckett, apparentati dalla percezione dell’assurdo.


A differenza di Krapp che riascolta alcune pagine di diario e trova un altro da sé, quindi non si riconosce, Craxi si ritrova. Seduto alla poltrona, con la sua giacca sahariana, ragionevolmente rende conto del suo operato. Le riflessioni si dipanano con chiarezza olimpica, il che equivale a una riconquistata coerenza, una riconquistata sensatezza, una riconquistata compiutezza. Si verifica un’adesione dell’io al sé, un passo in avanti verso l’agognata unità dell’essere.


In “Dante e l’aragosta” di Beckett, Belacqua prende lezione di italiano e discute con l’insegnante della pietà e della dannazione: “Perché non la devozione unita alla pietà anche quaggiù? Perché non la compassione insieme alla religiosità? Un po’ di compassione in mezzo alla pena del sacrificio, un po’ di compassione per poter rallegrarsi a dispetto della condanna”.


Ezra Pound chiude il 116° Canto con quello che sembra un appello alla grazia divina: “Carità talvolta io l’ebbi, non riesco a farla fluire. Un po’ di luce come un barlume ci riconduca allo splendore”.


E’ precisamente questo sentimento che ha indotto Perrotta a scrivere “Hammamet”.


Come i figli contestano i padri, a diciotto anni anche lui ha contestato Craxi (considerato per il tratto perentorio, decisionista, risoluto e accentratore il padre-padrone del PSI). Ma ha superato la fase del risentimento adolescenziale, si è identificato nella figura del padre (in senso lato) e assumendone il punto di vista (sempre in senso lato) è diventato a sua volta padre: ha recuperato quel modello per essere lui stesso genitore del novum.


“FILOSOFI DA BAR”


Il pensiero speculativo, la marca esistenziale e la vena poetica si combinano con la levità naïf, che pure c’è nella sua produzione, stavolta predominante, fino a invertire di segno ogni possibile rilevanza significante. Nell’intermezzo coreutico (una vera e propria quota rosa questo balletto ideato ed eseguito da Barbara De Blasio) un personaggio piumato, in doppia veste di cameriera e musa, assiste ai soliloqui etilici di pensatori tautologici persi dentro il bicchiere. Il titolo dell’atto breve è appunto “Filosofi da bar” (2009) che con “Ginevra” (2010) compone un dittico.

 


“GINEVRA”, PERDERSI DENTRO UN BICCHIERE


Nei bar, nelle osterie, a ridosso delle fontane nelle piazze, a zonzo per strada spesso si fanno le migliori conversazioni. In “Ginevra” di Massimiliano Perrotta due signori seduti al tavolo di una bettola parlano del male del mondo. Non il perché del dolore, ma il come dell’esistenza, è questo il tema. Il dottor Coppola e il professor Caruso discettano sui destini dell’umanità con semplicità e delicatezza di tono. Ripropongono la secolare contesa tra Dio e gli scienziati sulla reggenza delle sorti. Nessuno dei due sembra essere credente. Entrambi interpretano un comune sentire che vorrebbe sconfiggere la morte. Uno amerebbe l’immediatezza della soluzione al problema, inclusa persino la possibilità di prolungare il migrare dei giorni fino all’estremo limite. L’altro dichiara la necessità delle lacrime da consolare più della consolazione stessa, quasi che a essere accontentati si perda qualcosa. Fideismo, scientismo, scetticismo, empirismo, a prevalere è il realismo magico. I due dotti a un certo punto vedono avvicinarsi Luciano, l’oste, vedovo ancora innamorato che propone di bere insieme un bicchiere. Il nome della moglie ritratta in foto (con la quale continua a monologare a fine serata come sempre) suggerisce un certo romanticismo cavalleresco, descrive la nostalgia dell’amore avuto e la speranza di un altrove metafisico in cui la persona intera possa ritrovare il suo stesso immutato amore per una donna che non c’è più. Rilevante nella disputa è il volontario aggiramento da parte del regista della dottrina della Chiesa, dogmi e così via, fatta salva la premessa che rimbomba all’inizio del corto, ossia la preghiera ambientale di Paolo VI che introduce al cuore dei ragionamenti: la risurrezione della carne e la vita eterna. In “Ginevra” la complessità ingenua sta nel proporre uno scambio di battute tra i convenuti, che però, omettendo di considerare le vicende di Cristo Gesù e del calice di ebbrezza che redime chi lo vuole, fanno i conti senza l’oste.

 


“IL MANTELLO”


Un uomo anziano, al centro dello spazio scenico, è interrotto nelle sue meditazioni da un giovane che irrompe nel suo antro e lo attraversa per poi uscirne. Assiso, ha un’eco da prototipo: se non un caravaggesco San Gerolamo, certo tende le mani alla tradizione iconografica degli eremiti nel deserto e, dato l’oculare barlume psicotico alla Hitchcock, anche alla collezione dei matti che l’archivio di celluloide fornisce: che si tratti dell’evoluzione dei ballerini squadristi di Kubrick ridotti all’unità del singolo? Il vecchio, si suppone saggio, offre il suo aiuto all’inatteso incursore e ricorda di averlo già introdotto in un clima da simposio, favorendogli la lettura del libro, si intuisce sapienziale. È tuttavia smentito dai modi sbrigativi e allertati del fuggiasco, che lasciato il suo paese non conosce la valle e si avventura da solo verso l’ignoto, sordo ai comandi. Massimiliano Perrotta nel “Mantello” sembra aver trattenuto un vago sentore degli psichismi isterici, di pirandelliana ascendenza, riconducibili ai fraseggi di Sebastiano Addamo che indaga l’umana ostinazione e il pervicace accanimento con cui taluni negano l’importanza delle apparenze o l’appropriatezza dei cognomi. L’aggressività di un unico scatto repentino da parte dell’uomo, vestito in penitenziale tenuta arancio, fa precipitare il tratto aulico del lessico e dà un’improvvisa accelerazione al tempo immoto e sostanzialmente remoto del corto teatrale. Il ragazzo fa per allontanarsi. Minata l’autorità patriarcale, con la disattenzione prima e l’evasione poi del discepolo, non si realizza un’importante condivisione. L’offerta del mantello, simbolicamente indicativo della necessità di premunirsi contro le intemperie, cade nel vuoto. L’apparizione finale di un limone, mondato in tempo reale, chiude l’atto. Con Roberto Pensa e Benedetto Cantarella, scritto e diretto da Perrotta, “Il mantello” (2011) è stato presentato al Tordinona nell’ambito dell’undicesima edizione di “Schegge d’Autore”. Direzione artistica di Renato Giordano, il festival della drammaturgia italiana contemporanea vanta, secondo le parole del presidente della giuria Franco Portone, una “dinamogena potenzialità di stimolare e attivare la coscienza critica dello spettatore, qualità che non è cosa né del cinema né della televisione”.